FICO significa Fabbrica Italiana Contadina (un terribile ossimoro storico politico che spazza via qualsiasi cenere comunista rimasta…) e pertanto dovrebbe essere considerata di genere femminile al contrario di come farà il cento per cento della gente, compresi i suoi creatori. Prima di parlarne devo fare alcune necessarie premesse.
La prima è che le impressioni sono a caldo, relative alla giornata inaugurale (15 novembre) che, sicuramente, può dare solo un’idea vaga di come si rivelerà questo progetto nelle sue giornate a venire.
La seconda è che sono entrato con molte prevenzioni, prevenzioni confermate di cui parlerò man mano e che influenzeranno in maniera soggettiva quanto sto per scrivere.
La terza è che il posto è oggettivamente molto bello, ha un suo valore estetico e mi sembra pure funzionale. La sua importante estensione, dà un piacevole ordine ai vari reparti disposti però, a mio avviso, in modo un po’ dispersivo.
FICO è davvero molto esteso ma, se escludiamo le parti esterne che per motivi di tempo non ho visitato e che riguardano le stalle, gli orti e tutta la parte relativa alle coltivazioni e gli allevamenti, non poi così tanto esteso quanto mi aspettavo. Si evolve principalmente in lunghezza ed ogni reparto è ben distanziato.
Andiamo per ordine. Il mio arrivo intorno alle 16.10 è anticipato da un discreto traffico ed una strana frenesia dei parcheggiatori mi fa prevedere difficoltà di parcheggio.
C’è una gran confusione dovuta anche ad una manifestazione di lavoratori. I motivi sono noti già dai tempi di Eataly e non è mia intenzione entrare nel merito. Il gruppo è esiguo ma è mal gestito ed io faccio lo slalom tra contestatori, parcheggiatori ed altre auto. Alla fine trovo, con sorpresa, facile parcheggio tra i tanti posti di fronte all’ingresso.
Mi metto in attesa dell’ingresso previsto per le 16.30. In realtà entriamo con 25 minuti di ritardo. L’atrio si è riempito e ci stiamo accalcando sulle transenne. Un grande schermo mostra le autorità e le pseudo tali che nel centro di FICO parlano, parlano, parlano. Nell’atrio si bestemmia, bestemmia, bestemmia. La punta comica viene raggiunta quando un’assistente si avvicina a chi è in prima fila sulle transenne e chiede di spargere la voce che “si scusano per il ritardo”. Quando poi alle 16.57 ci dicono di indietreggiare perché devono muovere le transenne per farci entrare mi chiedo dove sono capitato.
Una volta dentro mi rendo conto che il posto è talmente grande da far sembrare poca la gente all’interno. Mi trovo spesso ad incrociare gli stessi volti e, forse, in realtà non siamo poi così tanti; anzi dopo un po’ ho quasi l’impressione che ci sia meno gente.
Sicuramente la cospicua folla presente all’inaugurazione si sta dileguando. Vedo Prodi ed altre facce note andare via. Senza sacchetti della spesa.
Dopo un breve lasso di tempo mi rendo conto di essere essenzialmente in un grande supermercato, ma l’estensione non è tanto giustificata da enormi quantità di cibo da vendere quanto piuttosto dai grandi spazi che distanziano i vari reparti.
Nei reparti c’è una buona scelta di marche di medio o medio alto livello a prezzi coerenti (questi ultimi sicuramente per budget spudorati). Non è solo un enorme supermercato, non fraintendetemi, è più un supermercato – per dir così – “non per tutti i gusti” e soprattutto non per tutte le tasche.
I reparti, forse perché è il primo giorno, sembrano tutti asettici; molto bene per l’igiene, ma mi manca il calore dei mercati, delle bancarelle: il bancone della macelleria e dei formaggi sono pieni di tagli o pezzi già confezionati e pronti. A ben guardare, rispetto alle dimensioni complessive, questi banconi, soprattutto quello del pesce, sembrano fin troppo piccoli.
Il reparto vini è ben fornito: tutta l’Italia è ben rappresentata con ottime aziende e bei prodotti, al loro giusto prezzo. Aziende note, nulla che stupisca, che catturi l’attenzione che so, con un vino difficile da trovare o da spiegare. Mi ricorda certe buone enoteche di fine anni 90.
L’aspetto ristorazione mi delude: alla fine non è molto diverso delle soluzioni gastronomiche di tutti gli ipermercati. Certi nomi importanti e un buon marketing non giustificano piatti, magari discreti (non quello da me provato, ad esempio) serviti in spazi comunque dentro un supermercato e quindi in mezzo alla gente che gira e che contribuisce più ad un’atmosfera da street food che non da ristorante…come il conto finale lascerebbe supporre.
Si defila da questo trend e con eleganza, Guido, ma la spesa (70/80 euro) può essere giustificata dalla qualità della materia prima e dal “risparmio” del non recarsi fino Miramare (ma io domando: è più triste una gita sulla Riviera Adriatica o mangiare in un supermercato?).
La filosofia Eataly dove si mangia in mezzo alla gente che cerca un libro o un barattolo di sugo, anche se con spazi più rarefatti, permane.
Sarà forse un mio problema ma per me la ristorazione è un’altra cosa. La ristorazione bolognese è vagamente rappresentata da qualche primo piatto di Amerigo. D’altra parte la bolognesità non è prevista da Fico, per stessa ammissione di Farinetti & C.
E allora mi chiedo a chi, a medio lungo termine, placata l’ondata di curiosità e pubblicitaria, possa interessare una macchina così faraonica o, se preferite, una siffata americanata…?
Da bolognese, personalmente, preferirò cercare sfiziosità che solo in parte posso trovare da FICO, ma che sono certezza se cercate nelle giuste botteghe, senza spostarmi più di tanto e, magari, senza svenarmi. Il centro di Bologna offre qualitativamente tanto, ma tanto di più! Se poi avessi una famiglia con cui fare conti a fine mese eviterei assolutamente un posto (caro) come FICO preferendo i soliti, caotici ma rassicuranti supermercati, non necessariamente Coop.
Anche il progetto relativo ad un’ipotetica didattica, ovvero mostrare ai bambini o ai curiosi come avvenga la filiera dagli allevamenti, le coltivazioni fino ai prodotti finali; didattica sicuramente proposta in maniera seria e professionale, ma mi sembra comunque un concetto zoppo.
Portare tutto (colture, animali, produzion, alimenti) in un unico ambiente è un assemblamento insidioso, se non addirittura pericoloso. Qualsiasi produzione (latte, carne, formaggi, vino, frutta, verdura) deve beneficiare di luoghi, climi, terreni differenti.
In questo modello proposto da FICO, invece, viene dato il messaggio di un’omologazione che è molto simile ad una superficiale globalizzazione. Ed è questo il messaggio che vedo in FICO e, più in generale, in Eataly. Dare visibilità alle eccellenze enogastronomiche italiane in modo così generalizzato fa il male dell’enogastronomia italiana stessa. Denota superficialità e miopia. Forse un po’ di arroganza.
Può andare bene ai turisti, oggi fortunatamente tanti, mordi e fuggi che passano da Bologna: gli stessi che, con buona dosa di ingenuo pressapochismo, conoscono l’Italia per la pasta (spaghetti – non tortellini!!!), per il sugo (pomodoro, mentre il ragù è un concetto avulso), il prosciutto, il grana (Parmigiano Reggiano o Grana Padano non fa alcuna differenza per tali avventori!).
Stop! Tutte cose che trovano da FICO. Mi chiedo se questi turisti, rimanendo un giorno o poco più a Bologna, oltre che andare da FICO per trovare prodotti italiani (non bolognesi!), trovino il tempo e la voglia di farsi un giro in centro per conoscere la città e magari la vera gastronomia bolognese.
La risposta mi mette tristezza!!!
Nonostante tutto, non voglio essere clamorosamente negativo verso un’opera che, effettivamente è bella e fatta bene; semplicemente mi chiedo perché, mi chiedo a cosa serva una simile americanata se non come un’auto celebrazione fine a se stessa che se può dare molto a livello turistico nel breve termine, in un lungo periodo rischia di essere deludente.
Per il resto mi auguro che possa funzionare anche perché è nel nostro interesse dato che sorge su un’area del Comune. Per il resto mi astengo da qualsiasi considerazione politica, ambientale, animalista, biologica…lasciandola alle meningi di contradditori molto più preparati. Sicuramente sono in tanti ad avere qualcosa da ridire. Io, lo ripeto, non mi intrometto, dando il mio parere da semplice potenziale cliente. Forse!
by Paolo Rebecchi